Esperimento letterario a puntate… “Uno squillo dal passato”

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Mi è capitato sotto mano un racconto per ragazzi che scrissi una decina di anni fa, forse di più. E’ una storia semplice, a tratti comica, a tratti ingenua, ma è il mio primo esperimento letterario stile “fantasy nostrano”. L’ho stampato in un’unica copia a mò di archivio cartaceo e si trova in vendita sul miolibro.it

La storia nacque da un sogno che feci e la scrissi in poco meno di una settimana a Roncobilaccio dove ho una casa e d’estate si sta in pace.

Pubblico qui il primo capitolo, se a qualcuno interessa e vorrà leggere due capitoli seguenti, (sono 17 in tutto) li pubblicherò. In caso contrario il libro non verrà riletto e corretto e finirà la sua vita. Per manifestare interesse, lasciare un commentino qualsiasi e se ne vedrò un tot (quanti non vi è dato di sapere), pubblicherò via via anche altri capitoli. Capito tutto? O bravi! Si parte col capitolo uno!

 

UNO SQUILLO DAL PASSATO

CAPITOLO PRIMO

Finalmente un po’ d’aria buona! Quel fine settimana in campagna era proprio ciò che ci voleva, dopo un’intera settimana passata fra una consegna e l’altra in mezzo ad un traffico bestiale. Il Pony express era l’ultima spiaggia per racimolare qualche soldo per le vacanze e per tentare di rivedere lei, Giulia, la sua ex, che dopo un mesetto di mezze risposte, se n’era andata da Firenze in vacanza in montagna con i suoi, lasciandolo in un mare d’incertezze. Ma qui, in aperta campagna, solo con il suo Beta tre marce, “il suo cavallo da tiro” motorizzato, Francesco aveva lasciato Giulia in disparte, intento ad osservare i TIR sul ponte dell’autostrada che si intravedeva in lontananza. Quel rumore sordo faceva da cornice al suo momento di felice solitudine. Momento interrotto dallo squillo del suo cellulare. Francesco prese in mano il telefono e lo guardò con apprensione. Sul display apparve la scritta “Ale negozio”, il collega che divideva con lui l’altro lavoro part-time. “Che faccio rispondo?” Il “cri cri” dell’apparecchio continuava a cantare inesorabile. “E ora che vuole questo…” Dall’altra parte una voce familiare lo riportò in città. “Pronto, Francesco?” “Sì dimmi Ale?” “Ciao, senti ti volevo dire solamente che domani a lavorare non ti posso sostituire”. “Come sarebbe a dire, io ho preso degli impegni!” “Il discorso è questo: se domani non mi faccio trovare al mio posto il titolare mi licenzia in un attimo… vedi un po’ te” “Vabbè, ho capito, come al solito me la piglio in tasca io… ciao eh?” “Ciao, grazie” “Aspetta, Ale!” “Dimmi..” “Senti, non è che li da voi… al centralino… oggi… Giulia…” “No, mi dispiace Fra, Giulia da quando è partita non si è fatta sentire. Dammi retta, fatti sta giornata di relax e non ci pensare” “Vabbè la fai facile te… ok ti saluto” “Ciao”.
Chiudendo lo chiamata Francesco dette un ultimo pensiero a Giulia, chiuse gli occhi e si sdraiò sul prato. Un dolce profumo di fieno gli pizzicò le narici e una leggera brezza prese a soffiare lentamente. Francesco si prese un altro po’ di tempo per sé. Mentre guardava le nubi sopra di lui, pensava a cosa poteva dirle se l’avesse rivista da lì a breve, cosa poteva fare, non fare, perché le sue storie dopo poco tempo finivano, ma pensava anche che alla fin fine, non era la morte di nessuno se si lasciava con una ragazza. Era giovane, era anche carino quando non si vestiva come uno appena uscito dagli anni ’90 e quando era in giornata sapeva essere molto simpatico, una dote apprezzata dalle giovani pretendenti. Il vortice dei pensieri l’aveva distratto, e Francesco si rese conto che il tempo era passato. Il suo orologio però, anche se era un “automatico” si era fermato, e le nuvole che fino a pochi minuti prima erano bianche come il latte, adesso si erano scurite. All’improvviso uno strano rumore di ferraglia e di passi gli fece voltare lo sguardo verso l’erba alta. Una folata di vento freddo gli fece venire la pelle d’oca, si alzò e fece per tornare sul ciglio della strada ma… ancora quel rumore, come di ferraglia e di latta che cozzano insieme, leggeri tintinnii, passi sordi nell’erba. Un animale? Francesco era curioso e decise di scoprire velocemente cosa provocava quel rumore. Fece capolino da sopra l’erba alta, entrò per qualche passo nella vegetazione, ma non notò nulla. Notò una cosa invece, guardando verso il ciglio della strada: il suo motorino. Cioè notò che il suo motorino era scomparso, volatilizzato. “Me l’hanno fregato!?” Penso subito. “Ora come faccio a tornare a casa? saranno cinque km e fra poco farà anche buio. Ma com’è possibile che non me ne sia accorto? Non può essere andato lontano” pensò, “Il rumore del Beta mi avrebbe svegliato”. L’unica strada era la provinciale e se si fosse mosso alla svelta avrebbe potuto sapere chi fosse il ladro. Stava per correre quando dietro di lui, con uno strillo,  svolazzò un grosso fagiano, che sembrava molto impaurito per come agitava le ali. Svolazzò fino all’inizio del bosco e si perse nel buio. “Un fagiano… mio zio sarebbe contento, non fa che ripetere che sono anni che non se ne vede più uno in giro…”.  Non fece in tempo a formulare quel pensiero che qualcosa gli passò a pochi centimetri dal suo fianco lacerandogli il giacchetto. Un buco da parte a parte campeggiava sopra la tasca. Francesco rimase immobile. Guardò avanti a sé e vide poco lontano su un alberello, una freccia conficcata nel fusto. “Una freccia?! Chi è così cretino da andare a caccia con un arco?” Francesco rimase immobile pensando subito al ladro del suo motorino. Sentendo dei passi avvicinarsi si tuffo fra l’erba alta ed aspettò di vedere in faccia il suo assalitore. I passi si fermarono. “Ma proprio io lo dovevo incontrare Robin Hood?” disse fra sé il ragazzo. Quindi, nel silenzio, sentì come due pezzi di ferro sfregare tra loro ed i passi ripresero. Francesco non sapeva se alzare la testa o no. I passi erano sempre più vicini e all’improvviso decise di prendere alla sprovvista il ladro. Balzò in piedi… e fu un miracolo che la sua testa non fosse spaccata in due come una mela, perchè la lama di uno spadone a due mani lo mancò per un soffio. Francesco si gettò in terra di nuovo e cercò di scappare rantolando sulle mani come un gambero, schivando i fendenti poderosi che aravano il campo intorno a lui. Poi finalmente riuscì a vedere chi stava tentando di ucciderlo. La figura che gli stava davanti sembrava essere uscita da un libro fantasy. Un omone bruno con tanto di corazza, elmo e spadone, campeggiava su di lui. Sudato, col fiatone e le gambe instabili per lo sforzo. Un pazzo certamente, ma un pazzo forzuto e che sapeva  usare quell’arma a due mani e che ora la teneva sopra la sua testa, pronto a colpire. Francesco si parò istintivamente il volto e gridò: “Ma chi sei?! Lasciami in pace! Tienitelo pure il mio motorino!” Il colpo per fortuna non arrivò mai. L’omone lo sbirciava dalla visiera, poi l’alzò e allo stesso tempo abbassò l’arma. “Mio signore!” L’uomo fece un inchino timoroso. “Scusatemi se non vi ho riconosciuto ma non mi aspettavo di incontrarvi qui, dove non venite mai da solo…” L’omone lo squadrò da capo a piedi poi continuò timoroso. “E con codeste vesti sembrate un forestiero e pensavo voleste rubarmi il fagiano. Se non lo recupero sono nei guai con vostro padre”. Francesco lo guardava senza capirci nulla. “Mio padre? Ma cosa c’entra lui adesso?!” “Non so… Vogliate scusarmi.” E con un altro inchino si rimise a correre verso il bosco sbuffando. Francesco si riprese un attimo dallo spavento, si rimise in piedi e senza sapere nemmeno lui il motivo per un’azione così stupida, seguì quello strano uomo armato. Nell’erba alta era facile vedere dove si era diretto e vide le sue ultime tracce vicino la riva di un torrente che divideva il bosco dal prato e che non ricordava fosse così pieno d’acqua limpida l’ultima volta che c’era venuto poche settimane fa. L’uomo era lì in piedi come in ascolto. Alzò la mano guantata di ferro e gli fece cenno di stare in silenzio, mentre armava l’arco. Poi, d’un tratto, un rumore alla sua destra. Fra i cespugli svolazzò il fagiano, l’uomo scoccò la freccia maldestramente nel vano tentativo di colpirlo, perse l’equilibrio, scivolò e cadde in acqua. Francesco si mise a ridere istintivamente, poi vedendo che il cavaliere non riemergeva si rese conto che la corazza che portava addosso sarebbe stata fatale. Si tolse il giacchetto, il cellulare di tasca e si gettò nel torrente. Un brivido lo percorse per tutto il corpo, i sensi si svegliarono di colpo. L’acqua così limpida fece sì che Francesco individuasse subito lo sfortunato cacciatore che si dimenava nel tentativo invano di liberarsi della pesante corazza. Il ragazzo vide che l’uomo cercava di sciogliere i legacci sui lati della corazza per togliersela. I secondi passavano velocissimi così decise di sciogliere i legacci sull’altro lato. La corazza si aprì e l’uomo riguadagnò la superficie a larghe bracciate. Con l’aiuto di Francesco si issò sulla riva del fiume, rimanendo con le gambe nell’acqua e gli occhi socchiusi. Dopo un paio di minuti di silenzio, l’uomo parlò: “Sir, mi avete salvato, vi sarò debitore per il resto della mia vita.” Anche Francesco cercava di riprendere fiato, non fece caso alle parole di quello che ormai credeva un pazzo e rispose: “Per poco non ci si rimaneva tutti e due! Ma che è il modo questo di andare a caccia?! Da dove viene? L’ha preso lei il mio motorino?” L’uomo lo guardò interrogativo, poi disse: “Ma sono Sir Brunetto dei Corvari, sono un servitore dello signore mio Sir Gabbriello, Visconte e padrone delle terre sulle quali stiamo camminando. Ed è per suo ordine che ero venuto in codesto bosco a caccia di fagiani, molto numerosi in questa stagione. Stasera infatti si terrà nella tenuta del visconte una cena in onore di suo figlio, cioè voi, Sir Francesco dei Corvari. Per questo dovevo riprendere quel maledetto fagiano!” Francesco era sempre più confuso. Ascoltava quell’uomo sudato pensando di stare a vedere un film o di leggere un libro fantasy. Per essere un pazzo ne aveva di fantasia! Ma qualcosa non tornava. Il rumore dei camion in lontananza era cessato, eppure il ponte dell’autostrada si doveva trovare sempre al suo posto. Si alzò in piedi e corse verso la cima della collina, non pensando a niente, sperando solamente di vedere quello che voleva vedere: il ponte. Brunetto non fece a tempo a proferire parola che Francesco era quasi arrivato in cima. La corsa gli fece venire il fiatone. Sulla collina si girò di scatto non credendo ai suoi occhi: il ponte era scomparso! Proprio così. Non c’era la minima traccia della fascia di cemento armato che univa la Toscana all’Emilia Romagna. Rimase allibito, con gli occhi sgranati e la bocca aperta. Iniziò a pensare di tutto: “Sto sognando!  No, troppo semplice. Sono matto! Oppure, ecco sì ho sbagliato collina, da qui non si può vedere, certo deve essere così! Sì, sì, è proprio così, perché non ci ho pensato prima? Deve essere l’altra! L’incontro con quell’imbecille mi deve aver disorientato, sì, sì ecco è proprio quella la collina giusta! “Si mise a correre verso l’altro promontorio, ad occhi chiusi, ma già sapeva cosa avrebbe visto: una gran bella porzione di cielo azzurro, come non l’aveva mai visto. Si mise a sedere e si ricordò di Brunetto che lo guardava dal fondo del pratone con aria interrogativa, in attesa di un suo gesto. “Brunetto!” Urlò. “ Vieni qui!” Brunetto non se lo fece ripetere due volte e con sollecitudine, ed anche con un po’ di affanno vista l’armatura di piastre che nel frattempo aveva indossato di nuovo, raggiunse Francesco sulla collinetta. “Ditemi… ehm…” “Francesco” lo interruppe il ragazzo “mi chiamo Francesco e basta, senza nessun Sir davanti, né marchesi, né conti. Francesco va bene?” Ditemi Sir Franc… ehm Francesco e basta”. Francesco riprese: “Senti Brunetto, come hai detto che si chiama quel conte?” Quale conte?” “Il conte di cui parlavi prima” “Io non ho parlato di nessun conte, io ho solo ricordato il nome del Visconte Sir Gabbriello” “Ok conte o visconte che sia, di quale terre è conte?” “Ma che domande, di tutte queste terre!” Rispose Brunetto con un ampio gesto delle braccia. Francesco cominciava a perdere la pazienza. “Ti sto chiedendo di dirmi, per piacere, come viene chiamata la terra sulla quale ci troviamo!” Brunetto ci pensò un attimo, poi rispose: “Bè adesso credo che si chiami Granducato di Toscana”. Francesco non credeva alle sue orecchie. Tirò fuori di scatto il suo cellulare. “Cos’è questo?” Brunetto lo guardò con diffidenza: “Mmm… si direbbe… bè…  ecco… un tascapane? No troppo piccolo… Allora, fatemi pensare…” Francesco urlò. “Un telefono! E’ un telefono cellulare!! Non è possibile che tu non ne abbia mai visto uno! T E L E F O N O!!” disse scandendo. “Non c’è bisogno di urlare ora l’ho capito, telefono, è semplice.” Brunetto fece una lunga pausa riflessiva. “A cosa serve teolfonio?” Francesco si lasciò cadere disteso in terra e iniziò a piagnucolare. “Com’è possibile! Com’è possibile!!” “Mi dispiace Sir, non credevo vi dispiacesse così tanto, cercherò di imparare ad usare teolfonio…” “Telefono…” Lo corresse Francesco tra sé, ma ormai quella piccola inceertezza si stava piano piano trasformando in qualcosa di reale, che aveva dell’incredibile. “Sì, certo, vedrete che in battaglia mi sarà molto utile”. “Sì, per chiamare i pompieri!!” Gli urlò Francesco. “Ehm certamente…” disse subito Brunetto, pur non sapendo neanche alla lontana chi o cosa fossero i pompieri.

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