Ultimi tre capitoli del mio raccontino…

CAPITOLO QUINDICESIMO
Giulia si gettò sul mago, che non dava segni di vita. Francesco corse in cima alla torre e si affacciò facendo attenzione a non sporgersi troppo. Quello che vide era preoccupante. Almeno una dozzina di uomini armati fino ai denti li avevano circondati. Dai loro visi pitturati si deduceva che erano selvaggi con la passione della guerra. Gli ricordavano gli indiani del vecchio west e come per rafforzare l’idea, una freccia gli passò ad un palmo dalla fronte. Un guerriero muscoloso dava potenti spallate alla porta di legno della torre che lentamente cedeva con sinistri scricchiolii. Francesco vide accanto a se un robusto panchetto di legno e in una frazione di secondo lo scaraventò di sotto prendendo il guerriero in piena nuca che svenne con un tonfo sordo. “Uno a zero”. Dal basso ora provenivano urla isteriche e molte frecce rimbalzarono sui merli della torre. Francesco scese al secondo piano e vide Giulia che teneva sulle ginocchia il povero Graziano. Lei lo guardò con aria interrogativa, ma Francesco non seppe che dirle. Poi il nano socchiuse gli occhi e guardando Giulia esclamò: “Santa vergine! Sono in cielo!” “Ma quale cielo, sono Giulia, come stai mago?” “Sento come un fastidio alla schiena, dovrei avere qualcosa incastrato…”. La sua manina cercò la freccia strappandola dalle sue vesti.

Francesco rimase sbigottito dalla freddezza del mago, ma poi si rese conto del trucco. Sotto l’ingombrante veste, il piccoletto indossava una pesante cotta di maglia e la freccia aveva provocato solo un taglietto con un bel livido. “Meglio previdenti che morti!” Sentenziò Graziano. Giulia, tra il sollievo e l’irritazione, si alzò di scatto e il mago si ritrovò disteso sul pavimento. “Tiraci fuori da questo guaio, mago. Chi sono queste persone? Cosa vogliono da noi?” Il mago indugiò poi disse tutto d’un fiato: “Ecco, vedete, ehm… non proprio da voi… delle volte i componenti per i miei esperimenti non si trovano sotto la mia torre e anzi in certi casi non si trovano proprio in nessuna terra nel raggio di decine di chilometri, così queste persone me li trovavano e me li portavano direttamente da terre lontane. Purtroppo ultimamente non sono stato ehm… come si dice puntuale con i pagamenti, così, l’ultima volta che ci siamo incontrati mi hanno detto che me l’avrebbero fatta passare liscia solamente un’altra volta, solo che è oggi l’altra volta…” “Accidenti mago! Non dirmi che non hai un soldo?!” “Ve l’ho detto è un brutto periodo per me adesso! I sortilegi non sono più richiesti come una volta, le donzelle si accontentano di sposare i vecchi conti tanto poi muoiono presto… è un brutto momento insomma…” “Lo sarà per tutti temo, il portone non resisterà ancora per molto. Non puoi fare un incantesimo che li può fermare in qualche modo? Non so, una palla di fuoco, un missile magico, una tempesta di ghiaccio?” “Ehi ragazzo, ma cosa stai farfugliando? Non ho mai sentito parlare di “cosi” magici, tempeste e via dicendo, io sono un mago serio!” “E allora come speri di tirarci fuori?” “Mmm fatemi pensare.. aspettatemi qua, farò un tentativo.” Il mago raccolse la lunga veste nera, la maschera, un sacchetto con della polvere, una pentola fatta ad imbuto e salì sulla torre. Compiuto il travestimento, si fece coraggio e si sporse dai merli della torre:- “FERMI! INFEDELI! E’ IL GRANDE MAGO GRAZIANO CHE VE LO ORDINA!” Giulia e Francesco si guardarono sconsolati. “Vai, ci risiamo” disse Francesco. Il portone smise di sussultare e le grida si affievolirono. “IL GRANDE MAGO VI ORDINA DI RIPORRE LE ARMI E DI TORNARE SUI VOSTRI PASSI! OBBEDITE PRIMA CHE LA MIA IRA SI INFRANGA SU DI VOI! AVETE CAPITO?! DOVETE ANDARVENE! E andatevene…” Aggiunse Graziano senza enfasi. I guerrieri lo guardarono sospettosi, ma non fecero un passo. Quello che doveva essere il capo, agitò una lancia, e parlò:- “Dare nostri soldi, tu promesso! Noi dato erbe rare, tu non rispettato nostro accordo. Noi ora razziare tua torre puzzolente! YAHHHH!” Il martellare al portone ricominciò più forte di prima. Graziano allora frugò dentro la sacca e pronunciando frasi incomprensibili gettò quella che sembrava polvere al di sotto della torre. Qualche scintilla cadde sulle teste dei guerrieri che nemmeno si accorsero dell’accaduto. “Accidenti a questa umidità!” Esclamò Graziano “Dovevo tenerla nel baule invece che vicino finestra”. Tornato al piano di sotto il mago raccontò l’accaduto e i ragazzi non poterono far altro che prenderne atto. “Scusatemi, ma io non sono capace di far altro” “Come non sai far altro?! Ma se mio padre racconta che con i tuoi poteri hai fatto sprofondare un intero esercito nel fango?!” “Mia signora, volete sapere la verità? L’esercito, non era altro che una decina di banditi in fuga da vostro padre e la palude c’era già, io non ho fatto altro che indicare dov’era precisamente e dire qualche frase incomprensibile, come al solito. In conclusione: come mago non valgo proprio niente.”

L’ultima frase uscì dalle labbra di Graziano, con estrema tristezza, che a Francesco e Giulia parve molto amara. Improvvisamente però il nano ebbe un sussulto e alzandosi si fece seguire dai ragazzi in tutta fretta. “Seguitemi, c’è ancora una speranza.” Scesero tutti gradini fino al piano terreno. Il mago spostò dei vecchi mobili e indicò altri gradini in legno marcio che continuavano verso il basso. “Non lo uso da anni. La mia famiglia ci nascondeva qualche merce non proprio legale, e mio padre lo usava per uscire la notte quando mia mamma…” “Non vogliamo sapere altro grazie!” lo interruppe Giulia spazientita. “Sotto c’è un passaggio, vi porterà al sicuro. Seguitelo fino a che non incontrerete una grande pozza. A quel punto girateci attorno, non attraversatela, continuate e dopo un centinaio di metri sarete all’aperto, tenete!” E dette a Francesco una torcia e una vecchia spada , un po’ arrugginita ma ancora in grado di uccidere un uomo. “Come sarebbe a dire andate? Tu non vieni con noi? Ti uccideranno!” “No, basterà convincerli che sono un grande mago, ormai li conosco, fanno un gran fracasso, ma presi uno per uno sono dei giocherelloni. Francesco, porta in salvo la figlia del mio signore, correte!” I due ragazzi si guardarono e si resero conto che era l’unica soluzione. “Addio grande mago” disse Francesco “non ti dimenticherò” e porgendo la torcia a Giulia, si immerse nell’oscurità della galleria. Graziano si ingegnò per coprire al meglio l’entrata con i vecchi mobili, poi tornò al piano terreno, nel preciso istante in cui la porta ormai ridotta a poche assi tenute insieme da due chiodi, venisse fatta a pezzi. Il primo guerriero entrò e con rabbia incominciò a spaccare tutto quello che gli capitava davanti. Poi via via entrarono anche i compagni e la torre di famiglia di Graziano subì uno scempio che non meritava. Da sotto il piccolo mago sentì le sue ampolle disintegrarsi sotto le lame dei barbari, i suoi libri fatti a pezzi, i suoi panchetti divisi a metà con un colpo secco. Ed infine un odore di bruciato salì alle sue narici ed i suoi occhi piansero. Il capo di quell’orda imbestialita arrivò davanti a lui. Graziano lo accolse con un profondo inchino. “I miei omaggi, Sir Quincy” “Ecco grande mago, ah ah ah!” Graziano rimase con le mani infilate nelle maniche, per nulla intimorito dal bestione alto due metri che aveva davanti. “Vogliate accettare le mie umili scuse per il ritardo del mio pagamento. Provvederò il prima possibile. Ma ora andatevene dalla mia torre se non volete essere ridotti in polvere.” Graziano parlava piano ma fermo, risoluto, sostenendo lo sguardo dell’omone. Il guerriero sogghignò. Poi il corpo di Graziano si accasciò privo di testa. “Scuse accettate”. La notte quel giorno fu rischiarata dal rogo della torre di Graziano ed il fumo di quest’ultima salì alto in cielo, portando lassù anche un piccolo grande uomo.

CAPITOLO SEDICESIMO

L’aria dentro a quel cunicolo era quasi irrespirabile, umidità, carogne di animali morti e insetti sotto i piedi, completavano quel quadro sinistro. Francesco si rese conto che adesso si trovavano proprio sotto lo stagno. Gocce d’acqua filtravano dalla volta paurosamente instabile. I due ragazzi avanzavano piano piano nella fioca luce della torcia. Giulia si sosteneva al braccio sinistro di Francesco, che provava un certo sollievo nel sentire un po’ di calore. Ogni tanto un rumore strisciante li faceva sobbalzare. Ad un certo punto la volta si abbassò così tanto che dovettero procedere quasi inginocchiati. “Forse quando la famiglia di Graziano, l’ha costruito, non ha pensato che sarebbe servito anche agli umani di taglia normale.” Disse Francesco. Finalmente arrivarono alla polla d’acqua menzionata dal mago. Sarà stata circa di due metri di diametro e prendeva quasi tutta la superficie del passaggio. Dovevano stare molto attenti ad attraversarla. Passò per primo Francesco. Restando attaccato alla parete di fango, riuscì ad arrivare dall’altra parte seppur con difficoltà. Fu la volta di Giulia, che avendo visto Francesco non si preoccupava più del dovuto. Era quasi passata del tutto, ma un rumore ed un’ombra scura che guizzò sopra lo specchio d’acqua, la spaventarono e perse la presa dal muro fangoso scivolando nell’acqua melmosa. “Aiutami Francesco, non riesco a nuotare, sto andando sottacq…” Francesco si gettò verso la ragazza e riuscì ad afferrarla per un polso, riportandola in superficie. La melma ed il lungo vestito di Giulia rendevano tutto molto difficoltoso e la sua presa diventava sempre più instabile. Ancora qualche secondo e Giulia sarebbe tornata con la bocca sotto il pelo dell’acqua, quand’ecco che con la coda dell’occhio vide la causa dello spavento: il gatto nero di Graziano, che li guardava sorpreso della compagnia. Senza tanti complimenti lo prese per la coda e si pulì sul dorso della povera bestia miagolante la mano sinistra. Ora la presa era più salda, tanto da riuscire a portare Giulia sul bordo della polla. “Dio sia ringraziato!” Giulia esclamò. “Quel felino è stata la mia rovina e salvezza allo stesso tempo”. Ripulendosi un po’ alla meglio i due ragazzi continuarono a strisciare lungo il tragitto, ora con un nuovo compagno di “cunicolo”. Finalmente dopo due ore di buio profondo, videro una leggera luce farsi largo in quell’oscurità infernale e accelerando l’andatura, respirarono finalmente aria fresca uscendo allo scoperto proprio vicino ad un sentiero. In lontananza scorsero una colonna di fumo che si innalzava verso il cielo e sperarono in cuor loro che non fosse successo quello che invece purtroppo immaginavano. Il sole stava per tramontare e tutto era tranquillo. Il gatto nero di Graziano si era comodamente accoccolato fra le pieghe del vestito di Giulia, e non sembrava essere disturbato dai movimenti della ragazza. “Bè, sembra che ce l’abbiamo fatta” costatò Francesco. “Io direi che adesso sarebbe meglio tornare al castello non credi?”

“Fra un po’ farà notte, siamo al punto di partenza e mettici pure i lupi. Io direi di dormire qui. Siamo abituati ormai. Non vedi com’è tranquillo?”
“Anche troppo” rispose Francesco “sembra il posto perfetto per un imbosc..” e puntualmente, come evocata dal nulla, una freccia sibilò ad un centimetro dal suo naso. Altre la seguirono. Due si conficcarono a pochi centimetri dai suoi piedi. “Corri!” Gridò a Giulia. “Corri più veloce che puoi!” Ma sapeva che era inutile. Francesco afferrò per mano Giulia e la trascinò dietro di se a tutta velocità. Due uomini dalla faccia pitturata gli si pararono davanti menando un fendente ciascuno con le spade, ma Francesco, incredibilmente, riuscì a deviarle e a farli sbilanciare. Giunto in una radura si accorse che la fuga era giunta al termine. Tutti i barbari che avevano attaccato la torre di Graziano si trovavano davanti a lui. Si girò di scatto, ma si trovò a faccia a faccia con il capo, che sfoggiando un largo sorriso batté le mani in segno di approvazione. “Molto bravo. Bravo guerriero, veloce con gambe ah ah ah!” Tutti risero sguaiatamente. “Tu bravo a correre, lei… brava donna, bella donna, io piace belle donne, vero?” Si avvicinò a Giulia, come per baciarla. Lei si ritrasse e gli ammollò un sonoro schiaffo che fece eco nel bosco. I guerrieri ammutolirono. Partì con un secondo schiaffo, ma l’uomo non si fece sorprendere. Bloccò il polso di Giulia con un gesto della mano e glielo torse facendola gemere. “Lasciala!” gli urlò Francesco “ho detto lasciala!” Lo colpì con un pugno al volto che aprì una leggera ferita da cui sgorgò un po’ di sangue, ma il colosso a malapena se ne accorse. Francesco si rese conto dell’errore commesso, ma non avvertì la manata che gli arrivò in piena faccia facendolo crollare disteso sull’erba. Tutti risero inneggiando al capo. “Ohhh, tu guerriero coraggioso! Fai vedere noi, tuo valore in combattimento. Se vincere tu, io prometto di liberare te.” E si lasciò andare in un’altra risata piena di scherno. Francesco non sapeva come reagire. Che possibilità aveva contro un guerriero che usava la spada tutti i giorni? Ma ebbe un’idea: se non avesse usato la spada? Forse la sua cintura nera di karatè che tanto aveva faticato per prenderla ma che non aveva mai messo alla prova, sarebbe servita a qualcosa adesso… se solo fosse riuscito a convincerlo a combattere a mani nude però. Alzandosi in piedi si fece forza e cominciò a parlare: “Io fare lotta senza spada. Più onore senza spada!” Tutti i presenti borbottarono parole di dissenso. “Vostro capo forse avere paura di me?” Il capo ringhiò come una bestia e gettando la spada in terra avanzò minaccioso. “Alt! Fermo un momento.” Si girò verso Giulia. “Senti , io non so come finirà questa cosa, ma l’unica occasione che abbiamo è che io dimostri a questo bestione che valgo qualcosa, tanto siamo morti lo stesso. Comunque vada… bè non vorrei dire la solita frase da film ma…” Giulia lo interruppe “Film? Cosa è un titolo nobiliare?” “No, cioè, bè ecco… io se fossi il vero figlio di Sir Gabbriello non esiterei a sposarti, perché anche se sporca di fango, stanca e con un gatto che ti dorme nel vestito, sei sempre bellissima.” Giulia non disse nulla, ma avvicinandosi a Francesco lo baciò delicatamente sulle labbra. Un ringhio riportò i due ragazzi alla realtà. C’era un brutto bestione da abbattere. Francesco si mise in posizione e cominciò a saltellare, come fosse su un tatami da gara. Il barbaro ridacchiò e guardò divertito i movimenti del ragazzo. Poi Francesco decise ad attaccare e fingendo un movimento a destra, colpì invece il fianco sinistro dell’uomo, con un calcio al fegato. Il colpo andò a segno, ma il bersaglio non se n’accorse nemmeno. Francesco non si perse d’animo e da una distanza notevole sferrò un pugno dritto alla bocca dello stomaco, doppiandolo, con un altro calcio ai reni. Il capo, non batté ciglio. Rimase nella stessa posizione, come se non fosse successo nulla. Francesco si rese conto allora che colpire il tronco, era inutile, visto la robusta struttura muscolare dell’avversario. Il guerriero avanzò minaccioso, ma Francesco era come un’anguilla e riusciva a non farsi chiudere. Sapeva che se l’avesse afferrato non avrebbe avuto scampo. In palestra però era tutt’altra cosa il peggio che ti poteva capitare era un occhio nero. Qui combatteva per la vita, stanco, affamato, ferito e con la tremarella alle ginocchia. Finse un pugno al mento e portò il vero attacco al viso con un calcio circolare, che aprì il sopracciglio dell’avversario. Un rivolo di sangue colò sullo zigomo. Allora il ghigno sulle labbra svanì, sostituito da un digrignare di denti. Intanto si era alzato il vento e il cielo si stava anche oscurando per il tramonto. Francesco doveva terminare al più presto l’incontro. Deviò un potente pugno con l’avambraccio, sentendo allo stesso tempo un forte dolore. Il capo, volendo imitare l’avversario, aveva cominciato a tirare calci a caso, senza controllo e qui Francesco ne approfittò. Lo invitò ad attaccare, abbassando la guardia, poi quando la gamba avversaria gli fu a portata di mano, l’afferrò proiettandolo a terra. Mirò agli occhi e un pugno colse l’obiettivo. Due grosse mani lo afferrarono per il collo e fu scaraventato contro un tronco a cinque metri di distanza. Francesco era stordito, ma orgoglioso della sua mossa. Si riprese in fretta, proprio quando due mani unite si abbattevano sul tronco dove pochi istanti prima c’era la sua testa. Prese di mira adesso le articolazioni del ginocchio. Ogni volta che l’avversario tentava di afferrarlo, i suoi calci colpivano la rotula. Dopo una decina di attacchi, il gigante si accasciò tenendosi fra le mani il ginocchio ormai livido. I mercenari, guardavano adesso il loro capo, con curiosa attenzione. Quasi critica. Si erano stufati di vedere un combattimento senza sangue e senza scricchiolare di ossa rotte. I dissensi cominciarono a farsi sentire, ma Francesco allo stesso tempo si sentiva molto stanco. Erano dieci minuti che zampettava a destra e sinistra, era allo stremo. Se ne accorse quando una manata lo colpì in pieno viso, facendolo sanguinare dal naso. Giulia gridò, ma l’incontro non era ancora terminato. Una pioggerellina fitta si era sommata ai malus di quella sfida e il sole era tramontato già da parecchi minuti. Francesco decise di sferrare un attacco molto potente e partì con un pugno diretto al naso portato con il peso di tutto il suo corpo, con la massima determinazione. L’impatto fu violento e si udì chiaramente un sinistro “crock” provenire dal naso del capo clan. Urlò di dolore, ma riuscì a sferrare un calcio che colse in pieno stomaco Francesco, facendolo quasi svenire dal dolore. I guerrieri adesso avevano voluto quello che volevano e gridavano eccitati alla vista del sangue, anche se del loro capo. Francesco trovò la forza di alzarsi in piedi e si diresse verso Giulia. “Non ce la faccio più, andiamocene da qui.” Giulia urlò qualcosa, ma quello che vide Francesco fu un gatto nero che saltava sul viso del guerriero stufo di quella sfida, che aveva cercato di colpirlo alle spalle con la spada. Ebbe la forza di dire: “No onore con spada”. Per risposta ebbe un fendente che deviò per miracolo. Per fortuna il sangue che fuoriusciva dal naso del guerriero gli offuscava la vista, perciò i suoi colpi erano imprecisi, ma il vantaggio si stava via via assottigliando. Ora la pioggia veniva forte e i fulmini saettavano nel cielo quasi nero. Un colpo dritto al cuore. Francesco ebbe la prontezza di spostarsi all’ultimo istante, afferrando il polso del capo clan, ruotandolo in una posizione innaturale, riuscendo con un movimento laterale, a far cadere l’avversario e terminando il tutto con un rumore secco di ossa spezzate. Incredibile. Era riuscito con la disperazione, a sfruttare la forza avversaria. Se fosse tornato nel 1997 avrebbe ringraziato il suo maestro di karatè, che si era prodigato nell’insegnare ai suoi allievi anche qualche tecnica d’aikido e difesa personale. Ora il barbaro si era alzato in piedi, furioso. La spada pendeva dalla sua mani, inerte, come un ramo secco carico di foglie appassite. Abbaiò un ordine rabbioso ai suoi uomini, ma nessuno si mosse. Allora capì che aveva perso. Aveva perso da un ragazzo strano che combatteva in maniera strana, ma che l’aveva battuto. La rabbia prese il sopravvento. Si avventò sui ragazzi che di spalle non potevano evitare l’attacco… ma con un urlo si accasciò a terra. Tre frecce spuntavano dal suo petto. Ora il clan aveva un nuovo capo. Francesco non lo vide perché tutti i mercenari erano scomparsi nel buio della notte, in silenzio. Giulia, abbracciò il ragazzo sfinito e insieme si ripararono dalla pioggia sotto un grande albero. La notte era rischiarata da potenti lampi che illuminavano a giorno il bosco. “Sei stato magnifico” gli disse Giulia. Ma Francesco stava pensando soltanto che con quel tempo era pericoloso stare sotto un albero. Voleva dirlo, ma tutto quello che sentì e vide fu un gran boato, e una luce accecante, e poi fu silenzio.

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

Qualcosa di ruvido bagnava il viso di Francesco. Sentiva caldo. Un calore confortevole. Aprì gli occhi e vide due palle gialle che lo fissavano. Poi scomparvero lasciando il posto al cielo azzurro. Sentì il miagolio di un gatto che si allontanava. Si alzò a sedere. Era in un posto familiare, fra l’erba alta. Si guardò i vestiti, era sporco di fango, gli dolevano le braccia ed i muscoli del collo. Provò ad alzarsi in piedi, ma ci rinunciò a causa di un capogiro. “Giulia sei qui?” ma non ebbe risposta. Attese ancora qualche minuto, in silenzio, riflettendo sulla sua situazione. Poi sentì un rumore, come di un pezzo di ferro o di una spada che veniva sguainata ed un dejavù lo riportò all’inizio di quella avventura. Si girò sul ventre e attese. Ora poteva sentire anche dei passi, sempre più vicini, accompagnati da uno sferragliare di metallo. Intravide un movimento fra l’erba, si preparò all’attacco, ancora un passo e sarebbe saltato addosso al suo assalitore. Zak! L’erba davanti a se fu spazzata via e Francesco si gettò sull’uomo gridando. “Yaahhh!” ma si rese conto dell’errore. Si trovava davanti un contadino con in mano una falce, che spaventato esclamò: “Senti ragazzo, ti ho già detto più di una volta di non venire a poltrire nel mio campo. Un giorno di questi non me n’accorgo e ti falcio la testa! Sorbole!” Francesco non credeva ai suoi occhi. Aveva attaccato Cecco, il contadino di San Giacomo. Si girò e in lontananza vide chiaramente il ponte dell’autostrada. “Sono tornato! In che anno siamo? Che giorno è?” Cecco lo guardò perplesso. “Cosa ti sei fumato figliolo? Non certo l’erba di questo campo.” “La prego, mi risponda, siamo nel 1997?” “Ma certo!” “Ed oggi è il 17 giugno?” “Si, è il 17 di giugno, vuoi sapere anche le previsioni del tempo?” Francesco cominciò ad urlare, saltellando come un pazzo, non curandosi minimamente delle contusioni che aveva. “Grazie signor Cecco, grazie di tutto.” Più in là trovò il vecchio Beta dove l’aveva lasciato. Non era passato un solo giorno da quando si era addormentato, ma non era stato un sogno, il fango ed i lividi n’erano una prova convincente. Accese il motorino e partì verso San Giacomo che distava solo un km. Entrò nel bar e chiese un bicchiere d’acqua. Il barista glielo porse e vedendolo così conciato gli offrì anche una fetta di torta di mele. “Signor Corvari, ne vuole un pezzo anche lei? Guardi che è speciale.” Francesco si girò di scatto e sulla porta vide un omone, riccioluto, sulla quarantina, che lo riportò nel medioevo. “Hai bisogno d’aiuto ragazzo?” gli chiese il signore. “N-no no grazie, Brun.. no cioè, mi scusi” ed uscì di corsa dal Bar. “Strano ragazzo” commentò il barista “sembra uscito da un libro”. Francesco ripartì lentamente col suo Beta e attraversando il paese. Incontrando gli abitanti del luogo li guardò attentamente e in ognuno di essi ritrovò le fattezze dei personaggi incontrati nel suo viaggio fantastico. Le scene gli passavano accanto a rallentatore, vide un gruppo di motociclisti inglesi ridere in cerchio, mezzi ubriachi, vide un piccolo bambino vestito da mago, che giocava con i suoi amici, vide passare un carro funebre con al seguito parenti ed un parroco vagamente familiare ed infine vide il sindaco del luogo, con fascia tricolore, seduto su una seggiola davanti alla casa del popolo, alzare un bicchiere di vino rosso insieme ai suoi compagni. Il motore si spense e la corsa del Beta proseguì in silenzio, lungo la strada in discesa. Sentiva solamente le ruote sull’asfalto. Ma a quel suono si aggiunse un trillo familiare. Francesco lo ascoltò per quattro, cinque volte, non voleva rispondere al suo telefono poi cedette alla curiosità, si fermò, aprì lo sportellino… “Pronto?” “Ciao Francesco, sono Giulia”. Ma le batterie, come ben sapete, non durano secoli e quindi il cellulare esalò l’ultimo “respiro” e si spense, lasciando Francesco ancora, per qualche ora, immerso nei suoi ricordi di un tempo medioevale fantastico.